Lettera aperta
ai dirigenti scolastici
ai referenti per la formazione
ai colleghi
delle scuole che mi hanno invitato
a tenere attività di formazione in servizio
nel mese di settembre 2008
Care colleghe e cari colleghi,
stanno per iniziare alcune attività di formazione per le quali avete chiesto il mio contributo: a questo proposito mi sento in dovere di rivolgervi queste riflessioni, che alcuni recenti interventi del Ministro e lo schema di decreto legge del 28 agosto rendono indispensabili.
I temi ricorrenti nelle vostre richieste corrispondono ad ambiti dei quali mi occupo da anni, spesso da decenni: l’educazione linguistica, la progettazione e la valutazione dei processi di insegnamento/apprendimento, le competenze. Il mio curricolo professionale e istituzionale, le mie pubblicazioni, il mio sito, i miei interventi in una molteplicità di luoghi e di circostanze testimoniano da tempo quali siano, al riguardo, le mie convinzioni e le mie proposte. Ebbene, non farete fatica a immaginare quanto, proprio su questi temi, alcune dichiarazioni del Ministro Gelmini e le norme contenute nello schema di decreto siano lontane dal mio modo di intendere e vivere la scuola, di percepire e praticare la professionalità docente.
Non mi riferisco solo a questioni di fondo, di natura per così dire ideologica: all’idea di persona-cittadino, di società, di Stato, di scuola che quei provvedimenti sottintendono; queste questioni di politica scolastica e di politica tout court, nelle attività di formazione in servizio, si possono lasciare sullo sfondo; su queste questioni sono altri i luoghi e i modi con cui rispondere al Ministro ed entrare in dialettica con la sua “cultura” di governo.
Ho infatti esperienza e troppo rispetto per un contesto istituzionale qual è in ogni caso la formazione dei docenti a inizio d’anno, in iniziative volute e deliberate dal collegio docenti, per fare di queste circostanze un momento di polemica o di attacco al Ministero. Mi asterrò quindi certamente (l’ho sempre fatto in circostanze di formazione in servizio) da valutazioni di merito sulla politica scolastica del governo, ma non posso e non potrò evitare che si percepisca nei fatti la distanza incolmabile tra le cose che ho praticato e studiato, di cui mi sono fatto convinzione per “scienza e coscienza” (come si diceva un tempo) e che inevitabilmente intendo dire e ribadire e le intenzioni che il Ministro ha dichiarato di voler perseguire e che ha già iniziato a introdurre nello schema di decreto.
Mi riferisco a questioni circostanziate e stringenti, centrali nelle tematiche che mi avete chiesto di affrontare.
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Prendiamo ad esempio l’educazione linguistica. Dice il Ministro in un articolo apparso sul Corriere della Sera il 22 agosto: «Noi vogliamo una scuola che insegni a leggere, scrivere e far di conto. Una scuola in cui si torni a leggere I Promessi Sposi e dove non si dica più che lo studente dovrà “padroneggiare gli strumenti espressivi ed argomentativi indispensabili per gestire l' interazione comunicativa verbale in vari contesti”». A parte la querelle sui Promessi Sposi a suo tempo già ampiamente dibattuta, non capisco che cosa non piaccia al Ministro di quella finalità: se gli strumenti espressivi o quelli argomentativi, se l’interazione comunicativa o i contesti diversi; oppure se non gradisca il linguaggio con cui il concetto è espresso. So però che quella finalità è uno dei capisaldi, forse “il” caposaldo di più di trent’anni di educazione linguistica, inserito in tutta la letteratura del settore, previsto dai programmi e dalle indicazioni curricolari di tutti i governi dalla metà degli anni settanta, nonché da tutte le Raccomandazioni europee degli ultimi decenni. Forse il Ministro vede (o è stata indotta a vedere) in quella finalità una conseguenza della tanto vituperata cultura della sinistra postsessantottina; certo è che negarla significa collocarsi fuori da più trent’anni di cultura linguistica ed educativa. Del resto il titolo dell’articolo è “Quarant’anni da smantellare”...
Pertanto, care colleghe e cari colleghi, nel caso sia questo ciò che volete è ad altri che dovete chiedere di parlare di educazione linguistica e di diritti di cittadinanza: io continuerò a credere e a dire che tali diritti si perseguono attraverso il controllo consapevole di una pluralità di tipi di messaggi in una pluralità di contesti e persino per una pluralità di scopi.
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Prendiamo ad esempio la valutazione degli apprendimenti.
Qui non è solo la questione dei voti a dover essere presa in seria considerazione: è l’intero impianto culturale ed etico di che cosa significhi insegnare, valutare, sancire che va attentamente ponderato. Nello schema di decreto l’insistenza sulla valutazione in decimi è quasi ossessiva: tutto si riduce al ripristino della scala decimale, come se fosse garanzia di oggettività (una panzana, come sa chiunque sia stato a scuola il tempo di prendere o dare un solo “voto”), panacea di tutti i mali, restituzione di autorevolezza alla scuola e ai suoi protagonisti.
Legga il Ministro Gelmini una qualsiasi delle raccomandazioni europee in fatto di istruzione e di formazione professionale a proposito della verifica e della descrizione degli esiti formativi: troverà materiali sufficienti per capire come il problema del voto sia l’ultimo dei problemi seri che dobbiamo affrontare, a meno di non volerci accontentare di qualche consolante e un po’ demagogica semplificazione.
Si veda ad esempio come la «Raccomandazione del parlamento europeo e del Consiglio sulla costituzione del Quadro europeo delle qualifiche e dei Titoli per l’apprendimento permanente» del settembre 2006 definisce i “Risultati dell’apprendimento”: «indicano la attestazione di ciò che un discente conosce, capisce e può fare al termine di un processo d’apprendimento e sono definiti in termini di conoscenze, abilità e competenze.»
Difficile immaginare che questa attestazione «in termini di conoscenze, abilità e competenze» possa essere coerentemente formulata e compresa dopo che docenti, discenti e famiglie si siano abituati a veder sintetizzato in un numero il rendimento scolastico. Senza contare che ormai tutta la psicopedagogia internazionale (ma si sa che la disciplina non gode in Italia di gran credito!) ritiene indispensabile che, per apprendere, un allievo sappia che cosa deve apprendere e su quali basi, voci e criteri verranno valutate le sue prestazioni. Così com’è indispensabile, per un apprendimento maturo, reale e trasferibile che egli sappia autovalutare con criteri attendibili ed esplicitati il proprio processo di apprendimento, i propri successi e le proprie difficoltà.
Ma tutto ciò sembra di colpo dimenticato, cancellato, irretito in una trama di debordante apparente buon senso antico. Certamente, dietro questo ritorno al voto, molti vedranno con sollievo la fine delle pratiche burocratiche di stesura dei giudizi: quante parole si sono versate in questi anni su quasi tutti i maggiori quotidiani italiani contro la prolissità delle pratiche valutative ridotte a vaniloqui formali! Ma non è neppure così. Il Ministro Tremonti lo dice esplicitamente in un recente articolo sul Corriere (22 agosto): il voto, a suo dire, produce sintesi, evita bizantinismi, ipocrisie, eccessi di pedagogismo, ma può accompagnare il giudizio, motivarlo. Un colpo al cerchio e l’altro alla botte, ma soprattutto la sensazione che attraverso il voto passi la reconquista degli spazi di serietà e credibilità della scuola e delle sue pratiche.
Quindi, care colleghe e colleghi, nel caso sia questo ciò che vi interessa, è ad altri che dovete chiedere di parlare di valutazione dei processi di insegnamento/ apprendimento: io continuerò a credere e a dire che la valutazione è solo l’atto conclusivo del processo, che il valore taumaturgico del voto è illusorio e spesso nefasto, che ciò che conta è ciò che legittima o delegittima l’esercizio della responsabilità educativa del docente, che alimenta o deprime l’intenzionalità ad apprendere del discente. E il voto è certamente una forma di motivazione, ma pessima e alla fine controproducente dal punto di vista educativo; poco idonea a forgiare spiriti critici e autonomamente responsabili. Che è forse proprio ciò che si teme.
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Prendiamo, infine, la vexata quaestio delle competenze.
Dice lo schema di decreto legge: «Dall’anno scolastico 2008/09, nella scuola secondaria di primo grado la valutazione periodica ed annuale degli apprendimenti e del comportamento degli alunni e la certificazione delle competenze da essi acquisite è espressa in decimi.». Lo stesso dice, poco sopra, per la primaria.
Tralascio la questione della valutazione in decimi del comportamento perché inerente a quei temi più generali sui quali non sono stato chiamato a pronunciarmi nei contesti di formazione. Ne tratterò altrove. Diversa è invece la questione del «certificare le competenze in decimi»: è un’idea certamente balzana e difficilmente difendibile con argomentazioni scientifiche, non solo perché molti studiosi - anche vicini al centrodestra - ritengono che le competenze non siano, non solo “misurabili” , ma neppure valutabili; ma soprattutto perché chiunque si occupi seriamente di certificazione delle competenze sa che è possibile realizzarla solo attraverso procedure e protocolli descrittivi, ai quali una eventuale aggiunta sintetica di tipo numerico (o lessicale) non solo non aggiunge nulla, ma sconfessa e deprime l’idea stessa di competenza, complessa e dinamica.
Probabilmente alcuni potranno sperare di liberarsi così non solo dei giudizi, ma anche delle competenze, della loro misteriosa e sfuggente identità, dell’impossibilità non solo di valutarle e certificarle, ma anche solo di capire che cosa sono.
Ma, care colleghe e cari colleghi, nel caso sia questo ciò che volete è ad altri che dovete chiedere di parlare o non parlare di pratiche di osservazione, valutazione e certificazione delle competenze: io continuerò a credere e a dire che le competenze devono essere un’occasione di innovazione della scuola (che chiama a nuove forme di responsabilità sia docenti che allievi) ancor prima e più che un criterio di descrizione e certificazione degli apprendimenti, in ogni caso di natura certamente descrittiva e non sanzionatoria.
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Queste convinzioni saranno inevitabilmente presenti nelle cose che verrò a dire e ad argomentare nelle vostre scuole. Non potrebbe essere diversamente, nonostante le intenzioni e le azioni del Ministro. La dialettica culturale non può che far bene alla scuola e alla crescita professionale dei docenti, ma è anche vero che in questo caso siamo di fronte a distanze incolmabili. Pertanto ho ritenuto doverosa questa precisazione pubblica e invito le scuole che intendessero rinunciare alle mie prestazioni a farlo senza sentirsi in obbligo per accordi intercorsi, verbali o scritti. Ringrazio infine coloro che mi hanno già confermato il desiderio di avvalersi in ogni caso della mia collaborazione. Anzi, che lo ritengono altresì importante.
Penso che il momento sia molto difficile e che le scuole abbiano il diritto e il dovere di esercitare l’autonomia di ricerca e di sperimentazione anche contestando al Ministro le contraddizioni del suo pensiero e del suo agire. Se un Ministro intende negare e capovolgere con le sue intenzioni e le sue scelte quarant’anni di storia del paese e della scuola, ignorare la letteratura più accreditata sia sulle discipline fondanti che sulla valutazione, entrare in conflitto con la cultura e la normativa formative della Comunità europea, allora la questione diviene delicata e ciascuno deve prendere in seria considerazione le proprie responsabilità istituzionali e professionali. Per questo, per quel che mi riguarda, io ho ritenuto indispensabile farlo con questo chiarimento.
Grazie dell’attenzione e buon anno scolastico.
Mario Ambel
Torino, 31 agosto 2008