Cos’è rimasto del ’68?
di Giacomo Mondelli
Una
premessa, a proposito del ‘68 della Gelmini
Sarebbe stato bello se il mio ministro,
contraddicendosi rispetto alle sue abitudini, prima di parlare ( male ) di qualcosa
che non ha potuto conoscere – in questo caso, il sessantotto – allo scopo di dare forza ai nuovi ( !? )
orientamenti ( !? ) normativi, avesse provato a informarsi sull’argomento. Caso mai chiedendo a chi c’era, com’è andata. Del resto, è
veramente un peccato che lei stessa, il mio ministro, non abbia
potuto vivere quell’esperienza; sono convinto che le avrebbe giovato.
Io, invece, c’ero e ci credevo
No.
Non mi vergogno. E, pertanto, neanche mi pento di aver
fatto il sessantotto. Anche se non proprio quell’anno ( avevo soltanto
14 anni all’epoca e anche
se ai quei tempi ci si avvicinava molto prima alla politica o, meglio, alle
ideologie politiche, io mi occupavo di altro ). Il sessantotto l’ho fatto ( a
modo mio, con molte timidezze, tante incertezze, grandi difficoltà, più dentro
che fuori di me e, questo, è forse stato anche un bene ) negli anni a venire. Prima direttamente, facendo politica, manifestando, “lottando” fino
al ’75. Poi ho continuato a farlo dentro di me e credo di non avere mai
smesso. Mi è sembrato doveroso esordire con
questa presa di posizione
per una serie di motivi.
Il primo è personale: sento di fare, in un momento di grande
confusione culturale e politica, i conti con me stesso , con chi sono e sono stato, con le mie esperienze ( per come le ricordo o le voglio
ricordare ). Il secondo motivo è, per
così dire, un atto dovuto: difendere quel periodo, le passioni che lo mossero e
lo invasero - invadendoci e muovendoci -, nell’insieme la vita e la cultura del
sessantotto dagli attacchi che giungono da tutte le parti o quasi. Il terzo motivo esplicita una forte
convinzione: al contrario di ciò che si dice, il sessantotto ha
promosso un processo di evoluzione e
crescita della società e della scuola italiana da consolidare e
migliorare.
Ciò
che si addebita alle persone che “fecero” il ’68 non è soltanto la scelta di aver
parteggiato per i regimi comunisti o, quello che è stato veramente peggio, di
aver determinato, in qualche modo, la deriva terroristica, quanto di essere
origine e causa di buona parte delle
faccende che, oggi, vanno male: la scarsa tenuta dei contesti sociali, la
disgregazione delle famiglie, la mancanza di autorevolezza dei genitori nei confronti dei figli,
l’appiattimento dei salari, l’assenteismo dei dipendenti della Pubblica
Amministrazione ( chissà perché non dei lavoratori delle imprese private!? ) e, conseguentemente, la scarsa qualità dei servizi
pubblici. In particolare, al sud ( vuoi vedere che alla fine di quegli anni si
tenterà anche un’identificazione geografica del ’68 ? ).
Qualcosa del genere, capita di sentire a
proposito della scuola. Al ‘68 si rimprovera – anche il ministro
Gelmini lo fa - di aver provocato una serie di danni e di averli lasciato in dote alla scuola attuale sotto
forma di pesanti carichi dai quali occorre quanto prima liberarsi: la
permissività educativa, la scarsa qualità e
professionalità dei docenti,
l’indisciplina e la scarsissima preparazione
degli studenti, ecc.
Bene, se la richiesta diffusa è quella di
abiurare il ’68 io vado in controtendenza e, avendo
come punto di riferimento il mio mondo, quello scolastico ed educativo, cerco
di recuperare le linee che lo “legano” idealmente e culturalmente alle passioni
sentite durante quegli anni, le quali, se realmente sostenute, possono
consentire alla scuola di assolvere al meglio le sue funzioni: promozione
globale della persona dell’allievo, sviluppo culturale ed economico della
società, consolidamento del tessuto relazionale e sociale della nostra
comunità.
Nel tentare questa operazione,
scelgo di partire elencando alcuni dei significati
che il sessantotto ha originalmente espresso a scuola rispetto al passato o che
ha significativamente consolidato.
1. Il sessantotto come voglia di libertà, di
essere, di contare e
di partecipare - A scuola, a quel
tempo, gli studenti espressero uno straordinario desiderio di libertà, di
contare e di partecipare e non pochi
furono i docenti che lo condivisero, sia appoggiando la loro volontà di abbattere vincoli scolastici
e culturali non più sopportabili, sia esprimendo essi stessi una fortissima
voglia di rottura delle catene che ne limitavano la libertà di insegnamento.
2. Il sessantotto come desiderio di rompere con la
tradizione, di cambiare, di innovare - Strettamente connesso all’ansia di
libertà e alla voglia di partecipare è
stato negli anni del ‘68 il desiderio di rompere con il passato e con le sue tradizioni. E, finalmente, di provare a cambiare il mondo. Anche a scuola. E
una delle ragioni
era costituita dalla sua evidente incapacità di stare, per così dire, al passo
con i tempi. In realtà, nonostante l’opinione
contraria di qualche benpensante – di quella epoca e dei nostri giorni - quella era una scuola che non funzionava per tutta una serie di motivi. A riguardo,
non sarebbe male ripassare la lezione di Don Milani.
3. Il sessantotto come voglia di stare insieme e di
cooperare - La voglia di essere e di
contare, durante quegli anni, non si espresse soltanto o tanto in senso
personale o soggettivo, quanto coralmente, anche in ragione delle motivazioni
politiche e ideologiche che la sostenevano. All’origine, la convinzione e la
speranza di promuovere a scuola – le basi di - una comunità di
individui, tra loro legati da vincoli profondi e in grado di vivere bene
insieme.
4. Infine, ovvero in
origine, il sessantotto come volontà di
stare dalla parte dei più deboli e per
una scuola/società più giusta e uguale. - I ragazzi, i giovani, gli adulti che
aderirono alle idee e alle visioni del sessantotto
erano consapevoli di vivere in un mondo
sbagliato, ingiusto, disuguale e, conseguentemente, fecero proprie due ulteriori convinzioni/urgenze: occorreva
lottare subito e sempre contro la disuguaglianza ( contro tutte le disuguaglianze ) stando dalla parte
dei più deboli; era necessario organizzarsi e battersi per realizzare una società migliore perché
più giusta e uguale. Il desiderio di lottare per realizzare – sulla terra – un
mondo più giusto e uguale si diffuse anche a scuola e costituì realmente una
delle motivazioni più forti all’espressione della sua cultura libertaria e
comunitaria.
Concludo,
ritornando a riferire direttamente a me il sessantotto. Lo faccio per dire che non sono tanto io che ho fatto il sessantotto, quanto è il sessantotto che ha
fatto me. Non sarei, ne sono convinto, quello che sono se non l’avessi vissuto.
Soprattutto, dentro. E a quel tempo, a
quell'esperienza ci ritorno, spesso. Ci ripenso e considero e giudico la mia
vita, quello che faccio, come sono guardando ancora agli ideali, ai principi,
ai valori, alle passioni di cui, durante quegli anni, mi sono appropriato. E che non mi hanno mai abbandonato. Specie nel mio lavoro. A
scuola.
Del
sessantotto, in realtà, non so né posso liberarmi. Del resto, lo
ritrovo negli sguardi, nelle parole e nei gesti di chi era come me e con me e
che così è rimasto e
anche di chi, allora la pensava come me e ora non più. Ma fa niente, il
presente non può deturpare il passato quando questo è
stato bello, ci ha unito e, in fondo, ci
unisce. E lo rivedo rivedendo persone che ora non ci sono più, ma che non
sono scomparse e mai lo faranno. Lo rivedo, veramente con rinnovata simpatia e
altrettanta speranza in chi,
in nome degli antichi ideali – voglio farmi convinto - sta
provando a cambiare questo nostro piccolo paese. Che
di un vero settantotto avrebbe tanto bisogno!