Casella di testo:  A proposito di scuola superiore

[con l’auspicio che si possa ancora fermare questa riforma e riprendere la riflessione su alcune questioni serie e urgenti]

 

Riflessioni di Mario Ambel in occasione del seminario CIDI-Proteo del 1 marzo 2004 a Torino

 

Un falso problema, di cui si discute troppo: il doppio canale
Il doppio canale e la fedeltà all’art. 3 della Costituzione

Partirei da un quesito preliminare ad ogni ragionamento, al quale penso che chiunque si occupi di scuola (e in particolare di scuola superiore) debba rispondere con chiarezza. E’ possibile conciliare la fedeltà all’art. 3 della Costituzione e al mandato che quell’articolo assegna alle scuole della “Repubblica” con la volontà di attuare nel nostro sistema scolastico il doppio canale? Intendo per doppio canale (o sistema duale) ciò che prevede la legge di riforma del centrodestra, cioè lo sdoppiamento del  sistema scolastico in un  “sistema dei licei” e un “sistema dell’istruzione e della formazione professionale”, cosa che ha poco o nulla a che vedere con la necessità incontestabile di avviare finalmente in questo paese una vera e qualificata formazione professionale, che sappia rispondere alle esigenze di sviluppo del paese e possa (nei modi, nei tempi e nelle forme opportune) integrarsi con la scuola, senza confondersi o sostituirsi ad essa.

Non escludo, ovviamente, che vi sia chi in buona fede ritiene che il doppio canale,  non solo non sia in contraddizione con l’art. 3 della Costituzione, ma possa persino essere un mezzo capace di  “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono  il pieno sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. In fondo questo continuano a dirci i sostenitori del doppio canale: che serve soprattutto a fornire risposte adeguate a chi oggi viene emarginato dalla scuola, a dare una maggior valenza professionalizzante al settore tecnico e professionale, a garantire un percorso misto di teoria e pratica (di pari dignità) a metà della popolazione scolastica, ecc. ecc.

Molti di noi sono convinti invece dell’esatto contrario, ovvero che il doppio canale non solo non sia uno strumento adeguato per rimuovere quegli ostacoli, ma che diverrebbe egli stesso un ostacolo ulteriore, destinato a ergersi sempre più insuperabile per una serie di motivi su cui ormai s’è detto e scritto molto. Tra l’altro, perché il doppio canale, polarizzando le due realtà educative, rischia di non fornire strumenti adeguati a nessuno (né a chi frequenta uno dei licei né agli altri); in compenso chiede di compiere una scelta difficile e anticipata, mentre tutto porta a suggerire di garantire a ciascuno più tempo e strumenti prima di decidere come affrontare il mare incerto della “flessibilità”; si illude di risolvere il problema di chi non consegue né una qualifica né un diploma, ma soprattutto rischia di sottrarre al curricolo degli istituti professionali alcune componenti culturali che ne costituiscono effettivi elementi di tenuta e di qualità; aumenta la forbice delle differenze socioculturali pregresse; innesca un dualismo forzoso e anacronistico fra culture, tecniche, modelli di sapere e di agire; rischia di generare tensioni e conflitti comportamentali, poi difficili da sanare, nei microcontesti della convivenza civile e nel tessuto democratico. Insomma, il doppio canale nega la complessità e la scelta di una pluralità polivalente di soluzioni, per imboccare la strada della semplificazione o del dualismo fra due diverse complessità, di cui pochi sentono l’esigenza e meno ancora colgono le giustificazioni culturali e sociali.

Posizioni molto difficili da conciliare

La differenza (e l’inconcialibilità) delle due posizioni è tutta qui. Si tratta di una differenza interpretativa e valutativa ovviamente legittima, ma non facile da superare. Sono quelle distanze a proposito delle quali anche i più affezionati fautori della politica bipartisan dovrebbero arrendersi all’evidenza dell’inconciliabilità delle posizioni. Come quando ci si confronta sulla “guerra preventiva” o sulle missioni umanitarie armate: è difficile capirsi. Anche immaginare soluzioni intermedie può diventare un’operazione un po’ rischiosa ed è comunque bene non barare almeno sui principi.

Bisognerebbe invece che il governo avesse la sensibilità culturale e il buon senso politico di rinunciare al doppio canale, se non altro per le molte perplessità che sono sorte nel paese (e in luoghi anche non sospetti) di fronte all’incertezza e alle ambiguità delle stesse soluzioni proposte: che cosa deve alimentare la seconda gamba del sistema? I soli centri di formazione professionale, che più o meno improvvisate sperimentazioni regionali stanno alimentando di false illusioni e di responsabilità più grandi di loro, fino a coprire il 10-15% del “mercato” (come piace ad alcuni chiamare il bacino d’utenza della scuola superiore), nell’ipotesi che al 6% attuale si aggiungano alcuni che oggi si disperdono? Oppure i centri di formazione professionale e una parte degli istituti professionali statali (come vorrebbe una lettura un po’ nominalistica della legge di revisione costituzionale approvata dal centrosinistra a fine legislatura), fino ad arrivare a un 30-35%, nell’ipotesi che istituti professionali meno “licealizzati” evitino di selezionare alcuni che oggi bocciano (peccato che siano proprio le materie professionalizzanti a bocciare in questi istituti e non italiano o storia)?  O ancora, tutto questo più una buona parte degli istituti tecnici, fino a quel trionfalistico 60% e oltre dell’ipotesi iniziale, talmente ardita da essere capace di cancellare in un sol colpo la tradizione e il senso degli istituti tecnici di questo paese! Come non stupirsi, non della nostra opposizione, ma delle riserve degli istituti interessati, delle perplessità e delle preoccupazioni di Confindustria, dei dubbi della Conferenza Stato-Regioni, delle scelte di molte famiglie che iscrivendo i figli al liceo (anche contro le indicazioni della scuola media) dimostrano di ragionare in una direzione esattamente opposta a quella del ministro e dei suoi consiglieri (che dovrebbero riflettere sul senso di uno spostamento massiccio di ragazzi dai tecnici ai licei classico e scientifico e sui rischi che fanno correre a quei ragazzi!).

Da tempo molti di noi ribadiscono invece che il proseguimento dell’esperienza formativa nella scuola pubblica dopo la scuola media è sempre più indispensabile (“obbligatorio”) per almeno due anni, da frequentare in modi e luoghi certamente diversi, ma tali da consentire a tutti di acquisire gli strumenti conoscitivi essenziali per godere dei diritti di cittadinanza in una società complessa. Si tratta di strumenti che solo la scuola può e deve dare, senza sottrarsi a un compito che si è fatto nel frattempo in parte più difficile, anzi, proprio per questo.

Successivamente, il triennio conclusivo dell’obbligo formativo deve poter essere frequentato in istituti superiori, il cui progetto culturale e curricolare sia definito attorno a  grandi campi di sapere e di esperienza, che sappiano gradualmente trasformarsi in poli territoriali polivalenti a indirizzo macrotematico (umanistico, scientifico, tecnologico, commerciale, ecc.), differenziati al proprio interno, aperti a rapporti di collaborazione e - se serve -  di  integrazione con la realtà esterna alla scuola: l’offerta culturale del territorio, l’università, la formazione professionale, il mondo dei “lavori”, ecc..

Come si debbano chiamare questi “istituti superiori” poco importa: fondamentale è che siano capaci di orientare e promuovere al proprio interno, di organizzarsi attorno a livelli, durate, percorrenze e rientri differenti nonché a diverse esigenze culturali e pre-professionali, che sappiano anche negoziare con gli studenti percorsi formativi flessibili all’interno di solide opzioni curricolari progettate e sperimentate. Che poi un tale sistema scolastico sia europeo, nazionale, regionale, comunale o circoscrizionale è francamente un problema che può appassionare solo chi ha e alimenta una visione antagonista fra questi diversi livelli “istituzionali”. Piuttosto, quel sistema scolastico è e deve rimanere autonomamente istituzionale, semplicemente pubblico in quanto della Repubblica, ovvero di tutti quei livelli purché sappiano intergire, ciascuno per ciò che gli compete e, quindi, di nessuno di essi in modo esclusivo, con buona pace di più o meno affrettate o condivise leggi di revisione costituzionale, fatte o da farsi.

Anche per questo, anziché baloccarsi con la speranza che il doppio canale risolva i problemi della scuola (e persino dell’occupazione!) e prima di immaginare e praticare soluzioni possibili per la scuola superiore, è diventato indispensabile affrontare sul piano culturale e politico alcune altre questioni di fondo.

 

Tre questioni di fondo, di cui si parla troppo poco

Riconciliare la scuola con l’idea stessa della sua riformabilità. 

La prima questione riguarda il  tasso di cambiamento accettabile e sostenibile da parte della scuola. Sarà anzitutto necessario riconciliare la scuola con l’idea (prima ancora che con le pratiche) della sua riformabilità. Non sarà facile e non è neppure chiaro se, in tempi brevi, sarà possibile perché la scuola italiana ha accumulato in questi anni una tale gamma di anticorpi, non solo contro questa o quella “riforma”, ma contro l’idea stessa di riformabilità.

Sicuramente si dovrà passare dalla logica delle riforme epocali, mediatiche e più o meno traumatiche (che poi devono fare i conti con la loro fattibilità) a quella, più faticosamente modesta, della riformabilità quotidiana e del quotidiano, avendo cura di capire che cosa va profondamente mutato e che cosa va solo migliorato, salvaguardando in ogni ordine di scuola quello che c’è di positivo, che non è poco. Le ultime stagioni “bipolari” hanno dimostrato che promettere o minacciare riforme di sistema non solo accentua talune croniche resistenze al cambiamento, ma soprattutto arresta o inverte la capacità di autoinnovazione permanente.

La scuola italiana ha  bisogno di governi centrali (ancor prima che di ministri) che vogliano e sappiano sostenere (anzitutto finanziariamente) il suo lavoro e sappiano definire con chiarezza ma anche con ampiezza di respiro culturale e strategico la sua direzione di marcia, nonché di governi locali che sappiano creare e garantire le condizioni ambientali e strutturali affinché il suo lavoro possa svolgersi nel migliore dei modi possibili. Non ha invece bisogno di rivolgimenti che aspirino a essere la “prima grande riforma dopo Gentile”, soprattutto se, per farlo, ritornano politicamente e concettualmente a prima dell’ultimo vero cambiamento strutturale della scuola italiana: l’abolizione dell’avviamento professionale e l’istituzione della scuola media unica (1962). In particolare la scuola italiana non ha più bisogno di riformatori dimezzati che, dovendo riformare la scuola superiore e volendo mettere mano al rapporto fra cultura e lavoro, nell’incapacità o nell’impossibilità di farlo, finiscono col cambiare l’unico segmento del sistema scolastico che avrebbe bisogno di essere lasciato in pace: la scuola dell’infanzia ed elementare. Questo accanimento terapeutico sulla parte più sana (e indifesa) del sistema scolastico è l’indizio più evidente, e non solo da oggi, delle difficoltà di affrontare seriamente i problemi (veri) della scuola.

Analizzare e affrontare l’ “emergenza 11-16 anni”.

Il secondo tema di ricerca e poi di politiche sociali, comunicative e scolastiche conseguenti è più specificamente educativo: consiste nel capire se c’è o meno nel paese (e più in generale nel nostro modello sociale ed economico) una “emergenza 11-16 anni” e, qualora ci sia, che cosa effettivamente comporti e come vada affrontata in rapporto alla natura e all’efficacia degli ambienti e dei processi di insegnamento/apprendimento.  Bisognerebbe cioè chiedersi se una serie molteplice di mutamenti e di disagi (più o meno acuti, più o meno allarmanti) rende oggi più difficile predisporre una risposta educativa e formativa adeguata ai ragazzi, alle loro caratteristiche, ai loro bisogni e alle loro prospettive, alla loro realtà e alle loro utopie.

Si tratta di mutamenti di cui dobbiamo indagare meglio la natura e le implicazioni, che non riguardano però solo il rapporto con la “postmodernità” dei media (la televisione, i videogiochi, internet, ecc.), coinvolgendo gli stili cognitivi, le nuove potenzialità e le nuove carenze alfabetiche, le strategie conoscitive e procedurali, i modelli culturali; si tratta di cambiamenti (spesso molto più profondi) che riguardano i modelli sociali e culturali dominanti, i rapporti familiari, le dinamiche relazionali con il mondo adulto, il sistema delle appartenenze e delle identità e che agiscono su atteggiamenti, valori, modelli comportamentali, linguaggi, percezioni del tempo e dello spazio, ritmi e stili di vita, aspettative…

Nel passaggio tra la scuola elementare e la scuola media entra sempre più precocemente in crisi l’età (pedagogica) dell’oro: il tempo della grande alleanza (d’intenti e di pratiche) fra docenti e allievi, quella i cui positivi effetti, ambientali ancor prima che cognitivi e culturali, si vedono sulle pareti di una qualsiasi scuola dell’infanzia o elementare; quella alleanza che stenta poi a riprodursi nella scuola media, che è raro incontrare (e con caratteristiche ovviamente molto diverse) nella scuola superiore. Nel passaggio fra la scuola media e il biennio rischia di radicalizzarsi progressivamente una crisi relazionale e motivazionale, che ha la sua dimensione più acuta nella percentuale troppo alta di ragazzi espulsi dal sistema scolastico e che giungono a 18 anni senza diploma e senza qualifica professionale, ma che non riguarda solo loro: coinvolge, in forme e misure diverse, tutti i ragazzi della scuola superiore e più in generale la capacità della scuola di offrire loro esperienze conoscitive, processi di apprendimento all’interno di percorsi di senso condivisi. Anche per questo è limitativo continuare a lavorare attorno alle soluzioni per la fascia di emergenza, mentre è strumentale voler poi trasformare le ipotetiche soluzioni a quel problema in altrettanti nodi scorsoi cui impiccare l’intero sistema scolastico italiano.

Noi insegnanti conviviamo con questa “emergenza” dalla parte della cattedra: è un buon osservatorio, non privo, però, di falsi angoli prospettici. Possiamo contribuire a capire sintomi e a individuare possibili strategie di intervento, ma non da soli. Noi insegnanti sappiamo quanto sia difficile oggi dare senso  e prospettive condivise ai contenuti, alle abilità, ai modi di sapere, di essere e di agire (ovvero alle “competenze”) che proponiamo di apprendere. Sappiamo quanto spesso le nostre metodologie siano poco adeguate alle necessità educative, ai tempi che cambiano, ai ragazzi: a come sono fatti, a che cosa ci chiedono, a ciò di cui hanno bisogno soprattutto quando non lo chiedono o palesemente lo rifiutano. Ma temiamo anche controriforme semplicistiche e un po’ demagogiche che non faranno che peggiorare la complessità dei problemi e allontanarci dalle possibilità di soluzione. Certo, a questa emergenza non darebbero risposta adeguata la contrazione dei tempi, il ritorno al maestro polivalente, la didattica contenutistica e trasmissiva (per le altre ci vogliono spazi, tempi, strutture), la riduzione delle componenti comunitarie e cooperative del processo di insegnamento/ apprendimento, le 27 ore rigide e frontali e le 3 o le 6 opzionali contrattabili dall’allievo e dalle famiglie, il portfolio in funzione precocemente direttiva, la funzione orientativa della scuola media ridotta all’ingorgo selettivo del 2+1, ecc. Né, soprattutto, a quell’emergenza possono dare risposta logiche di partecipazione alla vita scolastica, alla crescita culturale e alle prospettive di cittadinanza dominate da principi quali l’individualismo, la libertà di scelta di tipo familistico, la contrattualità personale, la competitività, la fretta, la demarcazione fra le diversità, l’usa e getta, l’accumulo quantitativo, frammentario ed episodico di conoscenze…

Ridefinire che cosa significhi oggi l’idea  di una “scuola (della Re)pubblica”

Il terzo grande problema è di natura più culturale, sociale e politica, ma ha evidenti implicazioni legislative, anche e soprattutto per la scuola. Ancor prima di ricominciare a discutere del progetto culturale della scuola e dei motivi per cui è in crisi quello tradizionale e ci si divide su quelli alternativi, è indispensabile ridefinire la natura, i confini, le competenze di ciò che è e deve restare pubblico, nella coscienza delle persone oltre che nelle ipotesi strategiche e nelle scelte pragmatiche di chi governa.

La scuola è un ottimo terreno di elaborazione teorica e pratica per imparare a  ridistribuire tra Stato, Regioni, enti locali e autonomie scolastiche le responsabilità e i poteri in fatto di cultura, istruzione e formazione professionale. Ma per farlo bisogna decidere che cosa significhi, oggi, la dimensione pubblica delle istituzioni. E allora è indispensabile, almeno a sinistra, uscire senza rimpianti dalla sbornia neolibertista, dal fascino per la cultura d’impresa, dall’attrazione per managerialità ed efficientismo (che non sono criteri-guida per la scuola a scarsella piena e sono semplicemente patetici a scarsella vuota), dai progetti che si fondano sull’idea che “meno stato e più mercato” sia una buona soluzione persino per i problemi istituzionali, assistenziali, educativi, culturali, comunicativi, ammesso e non concesso che sempre lo siano per quelli più strettamente economici e finanziari.

La nostra collettività e la nostra sensibilità istituzionale hanno urgente bisogno di ridefinire e di percepire ciò che è pubblico, non in quanto “statale”, ma in quanto non privato né privatizzabile, non mercificabile, non contrattabile individualmente. Se una collettività non percepisce e non accetta più che in ciò che è pubblico la “liberta di scelta” dei singoli o delle famiglie non è il criterio fondante o prevalente, né il più pertinente; se non crede più che ciò che è pubblico non è di nessuno in particolare o esclusivo proprio perché è di tutti; se non riattiva spazi reali di democrazia e di elaborazione condivisa e compartecipata per vincere la “solitudine dell’uomo globale” e per riconquistare spazi di nuova ed effettiva autonomia e democrazia, allora la scuola (non solo pubblica, ma democratica tout court) è inevitabilmente destinata a deperire, a svilirsi progressivamente, a smettere di essere un patto solidale (e complesso) fra individui, generazioni, culture, stili, aspettative e prospettive di vita, per diventare un (semplicistico) servizio a domanda individuale, un puro contenitore di esigenze individuali, familiari o di gruppo ristretto e identitario oppure un’azienda che produce pacchetti formativi su richiesta di questo o quel committente esterno; o ancora, in alcuni luoghi, un calmieratore di contraddizioni sociali e di emarginazione. Ovvero è destinata a morire, a dar ragione ai ricorrenti profeti della descolarizzazione.

Affrontando questi problemi, riusciremo forse a riprendere il filo di un ragionamento complesso, che, confrontandosi con i cambiamenti in atto, sappia immaginare e realizzare un progetto educativo capace di coniugare in termini radicalmente nuovi costruzione d’identità, crescita culturale, diritti di cittadinanza e propedeutica all’agire sociale (al cui interno esiste ovviamente, ma non solo, la spendibilità professionale delle competenze acquisite).

Se non riusciremo a fermare la riforma e ad affrontare con coraggio questi problemi, culturali e politici ancor prima che legislativi e organizzativi, la scuola italiana rischia di  avviarsi verso un lento declino, di cui la riforma Moratti, se approvata e applicata, rappresenterebbe il punto di svolta e di non ritorno, che esaltarà alcuni processi involutivi già in atto e ne metterà in moto altri, ben più devastanti.